Stephane Brizé da domani, venerdì 24 settembre, è ospite a Torino dei Job Film Days. Lo abbiamo intervistato.
“Un autre monde” chiude la sua trilogia del lavoro: uno stile essenziale, il solito grande lavoro con gli attori. Per raccontare il lavoro bisogna concentrarsi sui singoli?
Da notare che a parte uno o più attori che ricoprono ruoli da protagonisti, l’insieme dei casting dei miei ultimi tre film è interamente composto da non professionisti. Amo moltissimo confrontarmi con questo. Il soggetto non ha niente a che vedere con la necessità di concentrare il mio punto di vista di autore intorno a un unico personaggio.
Forse questa è inconsciamente una risposta alle serie, che moltiplicano molto spesso i punti di vista e che allo stesso tempo inscrivono il racconto nel lungo periodo. Il film e la sua durata più corta ritrova forse così la sua necessità, ma più coscientemente si tratta di fare una radiografia su un individuo in un posto del mondo. Allora io mi intestardisco su di lui, lo scruto senza interruzione per tentare forse di meglio comprendere ciò che lui è.
Vincent Lindon è sempre più bravo, soprattutto nei suoi film: come lavorate insieme? Lo coinvolge anche in fase di scrittura?
Scrivo dei personaggi nei quali mi proietto totalmente. Uomini o donne sono tutti il riflesso dei miei interrogativi e delle mie emozioni. E ho avuto la fortuna di incrociare la strada di un attore che, malgrado sia nato all’opposto dello scacchiere sociale rispetto a me, è fatto di una materia identica alla mia.
Noi ridiamo, piangiamo, ci indigniamo, ci arrabbiamo per quasi le stesse cose. Questo fa sì che Vincent Lindon si metta molto agevolmente nei miei panni quando creo un personaggio che ha all’incirca la mia età. Tutte queste creazioni sono in qualche modo anche dei documentari su Vincent e su me stesso. Io non provo nessun obbligo a proporgli questi ruoli. Sa in generale di che cosa parlerà il film ma non interviene in nessun modo nella scrittura. Interviene sull’altra scrittura, quella del girato. Perché in quel momento lì, io scopro ciò che funziona e ciò che non funziona tra la parola e il corpo. È in quel momento che talvolta bisogna riscrivere.
Difficile pensare a un ospite migliore per un festival come i Job Film Days: secondo lei come viene raccontato il mondo del lavoro dal cinema, oggi? Cosa le piacerebbe vedere nei film degli altri?
Ciò che mi interessa non è tanto la descrizione precisa di un lavoro ma la maniera in cui questo lavoro impatta sugli individui. Amo che il cinema mi obblighi a pormi delle domande su me stesso. Può farmi ridere, farmi paura, farmi piangere, non mi pongo la questione del genere, ma mi pongo la questione dell’impatto su di me. Se non fa altro che divertirmi, ho la sensazione che il cinema cerchi di addormentarmi.
Il Museo del Cinema coglie l’occasione per proiettare tutti i suoi lavori precedenti: quanto sono diversi da quelli più noti? Quale si sentirebbe di consigliare al pubblico torinese, e perché?
Il festival mostrerà il mio ultimo film che non è ancora uscito in sala come i due precedenti. Tre film che mettono in scena degli operai e un manager in momenti di alta tensione della loro vita professionale.
Io non potrei consigliarvene uno o l’altro, è come se voi mi domandaste se preferisco mia figlia o mio figlio. Evidentemente possono essere visti indipendentemente gli uni dagli altri. Ma credo che vederli nell’ordine in cui sono stati fatti possa essere un’esperienza interessante.
Ora, dopo questa trilogia, cosa la aspetta?
Non considero l’azienda unicamente come una zona di guerra, ma come il luogo delle disfunzioni (e sono numerose): è appassionante andarle a vedere. E io continuerò ad andare incontro a uomini e donne in questo luogo di tensione del nostro mondo.
Si pone la questione del tono, poiché mi sembra che per mostrare il più giustamente possibile il grottesco delle regole del gioco del capitalismo sarò obbligato a sbilanciarmi verso la farsa, come il cinema ha saputo fare così bene in passato.
Ciò che sembra esagerazione al cinema spesso non è altro che il triste riflesso della realtà. La satira diventa allora il solo modo per mettere in scena il reale: questa pista di lavoro mi interessa molto.
Molti giornalisti la accomunano a Ken Loach: che opinione ha del suo lavoro?
Ken Loach è un regista essenziale che ha nutrito la riflessione e l’immaginario degli spettatori e di numerosi registi. Con questa capacità eccezionale di testimoniarci il mondo del lavoro e allo stesso tempo fare dei ritratti di uomini e di donne sconvolgenti, è un testimone essenziale della sua epoca. Spero di non essere solo simile a lui poiché essere semplicemente la stessa cosa non servirebbe a molto. È chiaramente stato tra quelli che hanno aperto una via: io spero al mio modo, con il mio stile, con la mia esperienza del mondo, di partecipare a questo lavoro di testimonianza che è stato così brillantemente intrapreso da molto tempo.
(Articolo di Carlo Griseri)