Nuovo aggiornamento sulle proiezioni del cineteatro Baretti.
Martedì 31 gennaio, ore 21, e sabato 4 febbraio, ore 18, per Portofranco è in programma EIN GESCHENK DER GÖTTER (Un dono degli Dei) di Oliver Haffner.
Versione originale in tedesco con sottotitoli. In collaborazione con il Goethe-Institut di Torino.
Anna perde inaspettatamente il suo ingaggio da attrice presso un piccolo teatro e si ritrova ad occupersi della direzione di un corso di recitazione dedicato a otto persone disoccupate. Inizialmente, nessuno di questi è contento di partecipare ma col tempo questi individui polemici e scettici maturano e diventano una comunità che desta speranza. Una tragicommedia nella quale il palco si trasforma in un luogo di riconquista collettiva di un’autostima andata persa.
Venerdì 3 febbraio, ore 20.30, ingresso gratuito per l’anteprima del documentario SARA – TUTTA LA MIA VITA E’ STATA UNA LOTTA di Dersim Zeravan.
Una serata organizzata da Comitato Arîn Mîrxan – Torino. Si racconta la storia di Sakine Cansiz, detta SARA, la leggendaria rivoluzionaria e combattente curda dai capelli rossi, una delle prime donne a dar vita alla resistenza armata curda contro l’oppressione turca. Co-fondatrice del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) con Abdullah Öcalan, Sakine Cansiz fu assassinata a Parigi il 9.01.2013 insieme alle attiviste curde Fidan Dogan e Leyla Söylemez.
Nel prossimo fine settimana in programma (sabato 4 febbraio, ore 21, con la presenza dei registi in sala, domenica 5 febbraio, ore 18 e 21, e lunedì 5 febbraio, ore 21) MILANO, VIA PADOVA un’inchiesta giornalistica di Flavia Mastrella e Antonio Rezza.
Nel film spicca il lavoro di persuasione svolto negli anni dai mass media sul modo di pensare della popolazione. L’uniformità di argomentazioni relative al razzismo, inibisce il sentimento e lo rende doppiamente minaccioso. Il 21 maggio a Milano in Via Padova, armoniosi e combattivi, iniziamo l’inchiesta: Antonio Rezza, Flavia Mastrella, Marco Tani, Massimo Simonetti, Ivan Talarico, Daniele Verlezza, Adil Bahir si muovono nella città che si risveglia. Antonio si guarda attorno, la metropoli è quasi deserta. Il sabato prefestivo consente la tipica sospensione di chi regala a se stesso l’oltraggio di un giorno di riposo. Gli intervistati si concedono con la prepotenza di chi vede in quel tempo perduto un diritto inalienabile.
MILANO VIA PADOVA parla di razzismo e insofferenza e racconta, attraverso il canto, la convivenza forzata e la cultura di chi è straniero. È il canto a farci vedere la dolcezza di un ritmo naturale da tempo dimenticato in occidente. Le risposte, a tratti di frasi fatte, in altri momenti scoordinate con l’aspetto e l’esperienza dell’intervistato, rendono metafisico lo squilibrio sociale. Nel magma di sollecitazioni i razzisti sostengono che gridare è un reato e i pacifisti cercano disperatamente di aiutare, di assistere, di voler integrare a tutti i costi chi, per volere politico, viene regolarmente maltrattato. Come se essere integrati fosse una cosa buona. È evidente quanto la mancanza di organizzazione determini la tensione tra gli abitanti che non riescono a comunicare; gli stranieri non sanno l’italiano e gli italiani non conoscono l’inglese. Viviamo inconsapevoli la violenza del disagio.
La domanda ricorrente è ”lei ospiterebbe a casa sua un extracomunitario? In un angolo, in cucina, tanto non dà fastidio, si mette in un cantuccio e la guarda, si mantiene da solo”. Sembra un quesito assurdo, ma tutti hanno creduto possibile una tale eventualità, ognuno di noi non esclude il paradosso. E allora si affaccia un dilemma insospettato: perché dobbiamo essere uniformi e uniformati? A che serve questo formalismo di democrazia caotica? Forse il problema della diversità è proprio ritenere diverso chi non lo è per niente. Siamo pezzi di carne che va al macello e non basta il colore a salvarci. Né la provenienza e neppure la lingua. Il razzismo è l’uomo che si sopravvaluta e che trova il tempo di scorgere irrisorie diversità sommerse dall’omologazione che dilaga. Gli stranieri, infatti, vogliono quello che vogliono gli italiani, il lavoro, una casa, i diritti. E mai la libertà di decidere autonomamente cosa fare. Noi, come loro, restiamo aggrappati all’infamia utopica della vita civile che ci incatena a una contingenza che crea fossati, voragini di intolleranza. Chi ci obbliga al vivere civile ci impone l’intolleranza sociale. Siamo razzisti su suggerimento dell’istituzione. Siamo razzisti programmati dalle nuove tecniche di persuasione collettiva. E gli stranieri si adeguano sviluppando un razzismo parallelo foraggiato dalla vita che scorre.
E la prossima settimana Portofranco propone, martedì 7 febbraio, ore 21, e sabato 11 febbraio, ore 18, ARRESTATEMI di Jean-Paul Lilienfeld.
Una notte, una donna va in una stazione di polizia per confessare l’omicidio del marito violento, commesso diversi anni prima. Il commissario di polizia chiede alla donna di raccontare l’accaduto, più conosce la sua vita, e meno ha intenzione di confermare l’arresto. Perché questa donna che nessuno sospettava insiste a farsi arrestare? Perché la polizia non ha intenzione di farlo? Uno dei due vincerà. Ma che cosa significa vincere in tali circostanze?