Registe (a Torino): Maddalena Merlino

Iniziamo oggi una serie di interviste a registe torinesi (o attive a Torino) con l’obiettivo di conoscerle meglio partendo dai loro lavori d’esordio, raccontare i loro progetti e attendere insieme un ritorno alla normalità. Prima “ospite” è Maddalena Merlino

Il tuo lavoro d’esordio è del 2005. Prima di “Q.B.” avevi già pensato di fare film? Come hai sentito che era la storia giusta?

Assolutamente no. Lavoravo ancora come autrice per l’allora Raisat, oggi Rai Cinema. Io scrivevo, Enrica Viola faceva le immagini, e Chiara Pacilli il voice over. Tutte giovani, tutte donne, tutte amiche. Era un piccolo format su cinema, cultura e design. Più di tutto io ho sempre voluto scrivere, e “Q.B.” (visibile oggi su Streeen.org) l’avevo scritto per qualcun altro. Avevo appena conosciuto Claudio Paletto, che sarebbe diventato il mio compagno di giochi e di vita, e mi chiese se gli scrivevo qualcosa sul tema resistenza per il concorso del Valsusa Film Festival. Quando lo lesse la frase fu: “Questo lo devi fare tu”.

Come è nata l’idea? Sei anche davanti alla macchina da presa, un’idea nata subito? Che esperienza è stata?

Q.B., quanto basta, lo si trova scritto nelle ricette di cucina. E allora giriamolo in cucina, in mezzo al cibo, che come donne dovremmo saper cucinare, ma non consumare. Quanto basta? Quanto cibo mi basta? E quante pressioni sociali devo subire ogni giorno come donna? Quando basta?
Il fatto di essere davanti alla macchina da presa è stato dettato da questioni di budget, non c’erano i soldi per un’attrice, e nemmeno per un operatore. Q.B. è stato girato in una notte, nella cucina di Claudio, che adesso è diventata anche la mia cucina, visto che non ci siamo più lasciati. Tutto il budget che avevamo l’abbiamo messo nel montaggio, 2 giorni in compagnia di Andrea Daddi (anche con lui la collaborazione e l’amicizia sono continuate fino ad oggi).

Lo descrivi come “né doc né fiction”: come lo potremmo definire?

Una storia. Trovo sempre difficile ed imbarazzante definire quello che faccio. Un po’ perché odio le etichette, un po’ perché quando un lavoro va in giro non è più tuo ma di chi lo vede.

Alla fine, si spegne la tv e si va al cinema a vedere “2046”: oggi che film “evidenzieresti”?

Così, di botto ti direi un film di Berlino, unico festival scampato alla pandemia. E allora sarebbe “Favolacce” di di Fabio e Damiano D’Innocenzo. Più di tutto però mi mancano le cose che non si vedevano nemmeno al cinema. Quei film che vedi solo ai festival, quelli per cui aspetti il Seeyousound, o il Lovers o il Cinemambiente…. è per questi film che sono entrata con entusiasmo a far parte della squadra di Streeen, per dare un pubblico più ampio al cinema indipendente e d’autore.

Da quel film a oggi sono passati 15 anni e molto cinema. Come possiamo riassumere la tua filmografia fino a qui?

Ho sempre e solo fatto cose fuori formato e fuori genere. Si va da cortometraggi di 5 minuti alla co-direzione artistica di un film collettivo di 5 ore. E cosa ci fai con film così? Io ci ho girato il mondo, almeno un pezzetto di mondo, fra festival, Istituti di Cultura, rassegne ed Università. Se penso che i miei corti sono stati acquistati da un’università americana, un po’ mi viene da ridere.
Ultimamente ho trovato altri mezzi per raccontare storie. Insieme a Claudio realizziamo opere di urban landscape con una tecnica che fonde le immagini al loro supporto creando strane effetti onirici e temporali. Sono appese in giro per il mondo in case di persone che non conosciamo, un nuovo tipo di pubblico.
Per il futuro, oltre a consolidare la mia collaborazione con streeen.org, spero di avere il tempo di tornare alla mio primo vero grande amore, la scrittura.