Registe (a Torino): Emanuela Peyretti

Nuova puntata di Registe (a Torino): ospite Emanuela Peyretti.

Tutti i tuoi lavori sono stati fatti “in famiglia”, con Rodolfo Colombara. Quando avete deciso di lavorare insieme e di fare documentari? Prima di GA.TA hai fatto altre esperienze nel settore?

Rodolfo e io ci siamo conosciuti, poco più che ventenni, lavorando sul set del primo film di Daniele Gaglianone “I nostri anni”. Poco dopo, con altri ragazzi dell’università, abbiamo fondato una piccola società cooperativa di produzione audiovisivi. È stata un’esperienza fallimentare dal punto di vista “imprenditoriale”, ma ci ha aiutato, almeno inizialmente, a formarci. Rodolfo è sempre stato più interessato alla parte creativa, io invece mi occupavo della parte organizzativa. Dopo l’esperienza della cooperativa, che abbiamo presto sentito molto limitante, è nata GA.TA, che ci ha dato modo di dedicarci a quello che più ci interessava: abbiamo scoperto insieme che era raccontare attraverso il documentario.

Il tuo primo lavoro è “Un frammento di cinema” (visibile qui), che però non consideri davvero il tuo esordio. Come sei arrivata a fare quel documentario?

In quegli anni, tra le altre cose, collaboravo con l’Aiace Nazionale, diretta da Gianni Volpi. Lui amava il cortometraggio, che non considerava solo una palestra per il lungo, ma un’opera completa. Grazie a lui e al festival che aveva creato, Film Breve, io e Rodolfo abbiamo imparato a guardare i corti con occhi diversi. Abbiamo conosciuto molti “cortisti” e abbiamo deciso di metterli a confronto. Abbiamo imparato a lavorare sul materiale raccolto e ci siamo concentrati soprattutto sul montaggio. È stata, questa sì, una bella palestra!

Il tuo esordio vero è poi “Semillas de utopia” (visibile qui): raccontaci come è nato il progetto. Questo lavoro apre anche la “fase” argentina, proseguita con “Ultimo dia de libertad” (visibile qui).  

Quello per l’Argentina è stato un amore a prima vista, mai sopito. Dopo la laurea abbiamo deciso di fare un viaggio: New York e Argentina! Dopo due settimane passate tra la vastità infinita della Pampa e lo splendore delle Cascate di Iguazu, ci siamo ritrovati a passare le ultime 24 ore nel centro di Buenos Aires. In Plaza de Mayo, intorno all’obelisco, disegnati per terra, abbiamo visto i pañuelos, i fazzoletti bianchi simbolo delle Madres de Plaza de Mayo. Ci siamo ricordati di Bechis e del suo “Garage Olimpo”: quello, ci siamo resi conto, era anche il Paese dei desaparecidos. Tornati a casa abbiamo approfondito l’argomento, leggendo e studiando molto, compreso lo spagnolo. E abbiamo conosciuto delle persone eccezionali, a partire da Eva Arroyo, che sarebbe diventata la protagonista di “Semillas de utopia”, che in quel periodo stava facendo una serie di incontri in Italia.
L’anno dopo siamo tornati in Argentina, e ci siamo rimasti 2 mesi. Sono stati 2 mesi intensissimi, abbiamo girato il Paese in lungo e in largo, ospitati dai ragazzi di H.I.J.O.S. (l’associazione che riunisce i figli dei desaparecidos). Passare tutto il tempo con loro, condividere lo spazio, i pasti, le risate, le riunioni, le emozioni forti, ci ha aiutato a capirli e a capire la lotta dei loro genitori molto più di quanto avremmo potuto fare ascoltando semplicemente le loro testimonianze. Ci sono entrati nel cuore, e ci sono rimasti. Con Eva, in particolare, è nata un’amicizia solidissima, tanto che i nostri figli la chiamano “la tia (zia) Eva”!
Al termine del viaggio avevamo raccolto oltre 70 ore di materiale. Il montaggio (totalmente autofinanziato, come tutto il progetto) è stato lunghissimo: la prima versione durava qualcosa come 4 ore e mezza! Abbiamo deciso di concentrarci sulla storia, che ritenevamo emblematica, di Eva, sacrificando – con una tristezza infinita – un sacco di altri argomenti; così è nato “Semillas de utopia”, proiettato per la prima volta in occasione del 30° anniversario del golpe. Un paio di anni dopo, nel 2008, siamo tornati in Argentina in vacanza, e ne abbiamo approfittato per raccogliere ulteriore materiale. Nel Paese, infatti, era iniziato un importante percorso di recupero della memoria, e tanti centri clandestini di detenzione erano in fase di trasformazione in luoghi della memoria. Con un contributo della Provincia di Torino e del Piemonte Doc Film Fund siamo riusciti a riprendere in mano il materiale avanzato e, integrandolo con le nuove riprese, è nato “Ultimo dia de libertad”, che era il pezzo mancante, la parte forse più “politica” .

Poi è arrivata la grande esperienza – anche umana – di “Resistenza creativa” (visibile qui).

Quando l’abbiamo conosciuto, Alberto Damilano dirigeva il Ser.T. di Settimo. Cercava modi sempre nuovi per lavorare con i giovani, e uno di questi era un laboratorio video in una scuola superiore della città, che abbiamo tenuto per 4 o 5 anni. Noi in realtà avevamo pochissimo a che fare con lui, io l’avrò visto forse un paio di volte, era una figura quasi mitica! Però c’era stima reciproca, lui aveva visto “Semillas de utopia” e gli era piaciuto.
Nel 2009 si è ammalato. All’inizio non si capiva bene cosa fosse. Mal di schiena. Una gamba che zoppicava. Sembrava potesse essere un tumore. A dicembre di quell’anno abbiamo saputo che aveva la SLA. È seguito un periodo di silenzio, noi eravamo alle prese con la nascita e i primi mesi di vita di nostro figlio, lui non sembrava voler parlare di quanto gli stava succedendo, e noi non sapevamo bene come comportarci, non eravamo amici.
Un annetto dopo abbiamo visto che aveva iniziato a andare in giro raccontando quanto gli stava capitando, ma tutto ciò gli costava molta fatica, così gli abbiamo proposto di fare un video da far circuitare al posto suo. Lui forse aveva già in mente qualcosa di più grande: ci ha dato carta bianca, ci ha detto di chiedergli cosa volevamo e di sentirci liberi di fare quello che volevamo. Abbiamo quindi iniziato a frequentarci con una certa regolarità, ci siamo conosciuti meglio, siamo diventati amici suoi e di sua moglie Francesca, una donna eccezionale. Alberto intanto ha scritto un libro, un romanzo di finzione in cui è presente, mai nominata, la sua malattia. Così abbiamo deciso di partire da lì per raccontare la sua storia, riuscendo anche a coinvolgere la figlia Micol, che non ha mai voluto farsi intervistare (le prime volte scappava quasi senza salutare ogni volta che ci vedeva, pur di non farsi “incastrare”!), ma, da attrice qual è, ha trovato la sua dimensione nell’interpretazione del ruolo ispirato a sua madre nella parte di finzione.

Un lavoro lunghissimo. 

Sì, “Resistenza Creativa” è stato un lavoro davvero lunghissimo: ancora una volta è stato, almeno all’inizio, autofinanziato, e dunque necessariamente portato avanti incastrandolo con altri lavori; poi è nata anche la nostra seconda figlia, e con due bambini piccoli le forze erano davvero ridotte all’osso. In più “Resistenza” è stato, fino all’ultimo, in continua evoluzione, come la malattia di Alberto, che progrediva senza sosta.
Nell’ultima fase “Resistenza” è quasi diventato un lavoro collettivo, alimentato da un gruppo di persone che, mi viene da dire, gli ha voluto bene, e che ha dedicato tempo e energie al progetto: gli attori, i ragazzi che ci hanno aiutato nelle riprese, i musicisti, chi ci ha dato una mano negli eventi per la campagna di crowdfunding.
È stata una bellissima esperienza, professionale ma soprattutto umana. L’amicizia nata con Alberto, Francesca e Micol, prima di tutto. La forza, l’ironia e l’umanità con cui hanno affrontato giorno dopo giorno la malattia. Ed è stata anche una grande lezione di vita – e di morte – per i nostri figli: loro sono letteralmente cresciuti vedendo Alberto attaccato alle macchine, sentendolo parlare attraverso il computer con l’uso del comunicatore oculare, hanno sempre saputo che la sua era una malattia senza cura, e il suo funerale è stato il primo a cui hanno assistito, pienamente consapevoli di quanto stavano vivendo.

E ora? Ci sono progetti in cantiere? 

Qualche idea sparsa c’è, ma per ora nulla di concreto. Devo confessarti che mi sento piuttosto a disagio a definirmi “regista”. Ho fatto dei lavori, soprattutto documentari, che mi appartengono e a cui tengo moltissimo, ma credo che la spinta al racconto sia arrivata soprattutto da Rodolfo: è lui l’artista! Io mi sono sempre dedicata maggiormente alla parte organizzativa: nel 2016, per i 40 anni del colpo di stato in Argentina, per esempio, ho organizzato e coordinato una serie di eventi, coinvolgendo numerose realtà culturali cittadine. È stata una faticaccia, ma vedere le sale piene di persone interessate mi ha riempito di orgoglio almeno quanto ricevere apprezzamenti per  i documentari.
Fino a qualche anno fa lavoravo in cassa al cinema Massimo: non avevo nessuna soddisfazione “professionale”, ma mi lasciava molto tempo libero, e così riuscivo a dedicarmi ai progetti di GA.TA in modo piuttosto costante. Ora invece lavoro a tempo pieno negli uffici direzionali del Museo, che è un impiego a me decisamente più congeniale, ma che mi impegna al 100% (e forse di più…!). Anche durante questo lockdown ho continuato a lavorare a pieno regime, e aggiungendo la didattica a distanza dei figli e le normali faccende quotidiane, non ho avuto tempo nemmeno di guardare film o leggere un libro, figuriamoci di pensare a un nuovo lavoro!
Però, in fondo al cuore, l’Argentina continua a chiamare…