Nuova puntata di Registe (a Torino): ospite Stefania Bona.
Quando hai capito che volevi fare cinema? Come e dove hai imparato il mestiere?
Ho capito piuttosto tardi che volevo occuparmi di cinema. Ho iniziato a giocare con la fotografia analogica da molto giovane e ad ossessionarmi alla pittura durante le superiori, per poi distaccarmene in Accademia e abbracciare una forma più effimera ma più narrativa di arte pubblica e relazionale.
La necessità di raccontare queste storie, e il mio trasferimento a Berlino in quegli anni, mi hanno fatto scoprire il cinema documentario e me ne sono innamorata. Proprio in quel momento mi sono arrivate contemporaneamente due risposte positive di ammissione a due master, uno di arte pubblica in Germania e l’altra a Bolzano, alla Zelig film school. Decido per quest’ultima e mi trovo catapultata in questo “nuovo mondo” del documentario, con una specializzazione in fotografia e macchina da presa.
La ritengo una formazione professionale e umana ricchissima, sono stati tre anni molto importanti. Devo dire che però la vera ‘scuola’ di questo mestiere per me è stata ed è tuttora l’esperienza sul campo, sui set dei vari documentari che ho girato negli anni. Ogni film è un pezzo di vita.
Invece per quanto riguarda la parte più tecnica, sicuramente grazie alla Film Commission Südtirol (IDM), subito dopo la fine della scuola, ho avuto la possibilità di iniziare a fare la cosiddetta gavetta anche nei set di finzione, nel reparto macchine da presa, che mi ha portato a lavorare a Roma per un po’ di anni, dove ho acquisito sicurezza tecnica, compreso il meccanismo del set e conosciuto veri professionisti.
Il tuo film d’esordio, e per ora unica esperienza da regista, è “Gente dei bagni” (visibile qui) che hai girato insieme a Francesca Scalisi nel 2015. Puoi raccontarci il progetto? Perché in quell’occasione hai voluto essere anche regista?
I germi di quel film iniziano da molto lontano, forse nel 2012, e corrispondevano proprio ad una crisi economica che era molto evidente attorno alla mia vita e forse corrispondeva anche ad una specie di vuoto esistenziale personale. Per la prima volta da quando facevo arte sentivo la forte necessità di dover raccontare qualcosa.
Quando poi, diciamo ‘casualmente’ (non esiste il caso secondo me), mi sono imbattuta in questo luogo speciale, le docce municipali e ‘la sua gente’, ho capito di aver trovato finalmente il cuore e la parte visiva del film che tanto cercavo. Questo luogo di cura e attenzione al proprio corpo e al proprio spirito, ne segnava anche il punto di vista e lo stile. Dopo averne parlato a Francesca, compagna della Zelig e montatrice, iniziammo a cercare delle storie all’interno di quel limite spaziale e a trarne un trattamento.
Sei una stimata direttrice della fotografia e operatrice: il tuo apporto ai progetti altrui si è modificato dopo aver sperimentato la regia? Come ti rapporti con i tuoi “colleghi” registi?
“Gente dei Bagni” è stato sicuramente un’esperienza tra le più importanti, mi ha insegnato tantissimo seguire tutte le fasi di lavorazione e mi ha fatto comprendere in parte l’enormità del lavoro del regista.
Credo che in effetti mi abbia aiutato a comprendere maggiormente le esigenze dei registi con cui poi mi son trovata a lavorare, nello specifico, ad ascoltare e a cercare di entrare nella loro poetica: come prima cosa, durante la preparazione stimolare il confronto creativo e ricercare un approccio visivo condiviso; come seconda cosa, nel momento complesso delle riprese, cercare di essere un supporto il più solido possibile, motivante e facilitatore.
Non so se sono stimata come dop, ma sicuramente è un lavoro che amo fare anche quando non sono regista, perché posso concentrarmi meglio all’interno della sola cornice del quadro e ricercare la mia creatività in esso.
In queste settimane di lockdown immagino che per te il lavoro si sia purtroppo “fermato”. O sei riuscita a portare avanti i tuoi progetti?
Il lavoro si è fermato, ma sono riuscita almeno a chiudere la color di due film che avevamo già girato l’anno scorso (“L’incorreggibile” di Manuel Coser – Altrove Film e “Lèlo, liberté et peinture!” di Emmanuelle de Riedmatten – Dok Mobile).
La sensazione è quella di vivere un cambiamento epocale, con un potenziale di trasformazione immenso, ma che può non essere colto. Onestamente questi mesi per me e la mia famiglia sono stati una dura prova, la città si è rivelata una gabbia, sensazione acuita dal fatto che nostra figlia è piccola e richiede ancora totale attenzione, quindi non abbiamo potuto far altro che cercare di mantenere il nostro equilibrio.
Il messaggio di questa cristallizzazione delle nostre vite, è stato forte, ci ha costretti a riflettere sul come proseguire a vivere.
Per quanto mi riguarda, nonostante la complessità degli eventi, è stata appunto un’occasione per rinsaldare dei valori e approfondire dei temi che già mi erano cari. Spero che questa sensazione di lucidità mi rimanga appiccicata ancora per un po’ e non svanisca col ritorno alla vita normale.
Ci sono nuovi lavori da regista in programma?
Diciamo che da inizio anno mi sono ritrovata nuovamente a scrivere. È tornata quell’urgenza di raccontare una storia che prende spunti da una mia esperienza personale degli ultimi anni, una relazione di amicizia con un ragazzo, minore straniero non accompagnato. Questa volta si tratta di finzione.