Registe (a Torino): Fabiana Antonioli

Nuova puntata di Registe (a Torino): ospite Fabiana Antonioli.

Quando hai iniziato a lavorare nel cinema? Come hai imparato il mestiere?

Ho iniziato a lavorare nel mondo del video (io il cinema l’ho solo visto in sala) al Laboratorio Audiovisivi della Facoltà di Architettura di Torino, negli anni ’90; grazie a borse di studio, imparavo a fare riprese video e montaggi in un “covo” dell’ala sul Po del Castello del Valentino, collaborando con un gruppo bellissimo di persone, tra cui Andrea Terranova, Stefano Tealdi, Alfredo Ronchetta, ma anche gli amici Maurizio Bonino, Marcello Cosenza e Barbara Andriano (mia socia per 18 anni). Sembra, ed è, un secolo fa, un’altra era: imparai per la prima volta a mettere mano su un computer, una telecamera, un sistema di montaggio (una sorta di proto-pc che lavorava solo off-line, remotando le macchine betacam e umatic da banco, senza ”undo”: non c’era il provare , ma solo il fare). Fu come imparare un mestiere in bottega. Non impiegai molto a dimenticare gli esami e la laurea e non mi sembrava vero di diventare video-operatore, anche e con orgoglio per la APTV, per cui seguivo fashion weeks milanesi e ritiri di squadre di calcio in giro per l’Italia. Poi ho aperto con Barbara la società Diecidecimi (che durò dieci anni esatti!), iniziando a produrre video. Abbiamo avuto la fortuna di lavorare principalmente per l’arte, collaborando con fondazioni, musei ed artisti; un vero artigianato per noi, con cui esprimersi. Quando il sistema produttivo ha iniziato a stringere, obbligando a scelte e modalità lavorative non sempre condivise, forse come forma di evasione ho realizzato i primi documentari, come una forma artistica, di libera espressione del proprio pensiero, senza clienti per cui far quadrare i cerchi. E quando ho concluso l’ultimo, poco tempo fa, ho anche cambiato lavoro.

Quale consideri il tuo lavoro di esordio?

Fu “Io. Storia di 20 persone”, un racconto biografico di sopravvissuti ai lager; raccolsi interviste a persone che quasi mai si erano raccontate, in imbarazzo non perché davanti alla telecamera, ma perché dimenticati, vergognosi della loro vita. Invece il doc vinse nel 2004 la sezione Memoria Storica del Valsusa Filmfest e fu selezionato ad una delle prime edizioni del Biografilm Fest a Bologna; così presi fiducia in me, in un modo inusuale di lavorare, da autodidatta alla regia e senza sponsor, a parte la collaborazione tecnica e l’appoggio della mia società. Trascorrere domeniche ed estati a farsi raccontare, in giro per l’Italia, era diventata la mia passione. E nacque una lunga collaborazione con l’Istoreto, Istituto piemontese della Resistenza.

Da lì in poi come hai scelto i temi dei tuoi progetti?

Essendo in auto-produzione, mi chiedevo solo cosa occorreva “fissare” per non perderne la memoria, ma anche cosa serviva a me stessa approfondire e denunciare. Realizzai “Finché morte non ci separi”: se nasci a Torino in una famiglia di tifosi granata, tifi Toro “ finché morte non ci separi”, odiando i rivali più famosi che condividono con te città di residenza, banchi di scuola, l’ufficio e, quasi sempre, gli spalti di un campo di calcio durante i derby, due volte all’anno.
Il doc è stato poi trasmesso su ESPN proprio prima di un derby: fu il premio più bello. Poi nel 2015 realizzai “Il segno del capro”, su vicende, luoghi e personaggi di Anarchia in Italia: un lungo lavoro, umano ed emotivo, doloroso. Da lì, nacquero collaborazioni col movimento No TAV ed anche il mio ultimo documentario “San Lupo e la rivoluzione che non fu”, racconto straordinario di una rivoluzione mai avvenuta, dimenticata dalla storiografia ufficiale: la storia della Banda del Matese, un lavoro realizzato con pochi mezzi e tanta volontà della comunità locale, premiata con la messa in onda su RaiStoria nel 2018. Inaspettatamente, che di anarchia, mi dissero quando lo proposi, in Rai è meglio non parlare.
Non avrei mai immaginato di tornare sull’argomento Toro, riprendendo la tua domanda: che senso ha ribattere il chiodo? E invece il lavoro forse più amato è stato proprio un documentario sul Grande Torino, sui giovanissimi giocatori che sostituirono in campo la squadra di calcio morta sulla sua città, nel 1949, nelle ultime partite di quel campionato che non fu interrotto dalla tragedia. Il documentario si intitola “L’ultimo viaggio del Conte Rosso” e fa riferimento al bus delle trasferte, un vecchio modello colorato di rosso granata, che accompagnò e chiuse il corteo dei feretri durante i funerali, finendo poi chissà dove. Non passavo economicamente e non solo un gran periodo, non sapevo come proseguire le riprese, non volevo uscire con un lavoro non all’altezza dell’argomento. Esco dallo studio di Filmika e vedo parcheggiato, dietro l’isolato, un bus identico al Conte Rosso. Devo aver perso qualche anno di vita. Sembrava me lo avessero calato dal cielo come nella scena dei Blues Brothers, una illuminazione divina. Corro a chiamare in aiuto i colleghi, intrattengono chi stava controllando i mezzi di scena (che di quello si trattava, le riprese per una fiction) mentre filmo il bus, anche quando lo caricano per portarlo via. Un bellissimo ricordo.

Ora hai lasciato il mondo del cinema: come mai? Di cosa ti occupi?

Ho lasciato Filmika, la cooperativa creata con Barbara Andriano e Davide Marcone, due anni fa, dopo anni di tanti bei lavori ma altrettante difficoltà che avrebbero corroso anche i muri, per un settore spesso poco valorizzato, nonostante le professionalità raggiunte. Ho scelto di vivere in montagna per una decrescita felice, sono vegetariana dal secolo scorso, ho due cavalli: era giunta l’ora di cambiare. Adoro i cani, ho studiato come educatore cinofilo ed ho avviato nella baita in cui vivo una pensione familiare, “La Cuccia nel Bosco”, una sorta di piccolo resort montano per 4zampe, in cui sono ospitati liberi e circondati dalla natura. La pandemia l’ho vissuta così, in Valle, senza traumi da isolamento perché avevo già chiuso con un ritmo troppo veloce per me, perché in montagna è normale avere contatti rarefatti e la vita scorre lenta. Il mio dolore è solo per chi non potrà ripartire e ha patito di più, la speranza è che alcuni abbiano compreso che non possiamo tutto, che il mondo non ci appartiene, che i valori sono vicini a noi ma fragili e invisibili se non rallentiamo.