Registe (a Torino): Irene Dorigotti

Nuova puntata di Registe (a Torino): ospite Irene Dorigotti.

Quando hai deciso di avvicinarti al mondo del cinema? Come hai imparato il mestiere?

Veramente non ho scelto di avvicinarmi al mondo del cinema, è lui che si è avvicinato a me. Ho sempre scritto molto e tanto immaginato luoghi persone situazioni.
Quando ero in 5^ Liceo abbiamo fatto un corso di cinema in Trentino e il corto che avevamo fatto è stato selezionato al Sottodiciotto: quella è stata la prima volta che sono arrivata a Torino, in sala a vedere il mio corto di classe proiettato al cinema Massimo.
Per un paio d’anni ho dimenticato l’idea del cinema e mi sono iscritta all’Università a Bologna, frequentavo antropologia e durante il mio Erasmus in Svezia, a Falun, sono finita in un corso di antropologia visiva. È stato in quel momento che ho avuto per la prima volta una telecamera in mano e ho iniziato a pasticciare con delle immagini, così pian piano ho iniziato a fare delle note visive sulle mie ricerche di campo che mi hanno portato in Australia.
Dopo la laurea triennale mi sono spostata a Torino per fare la magistrale in Antropologia visiva e per seguire la Holden. In quegli anni avevo una stanza tutta per me e ho iniziato a scrivere e filmare con più consapevolezza. Ho incontrato Stefano Tealdi, Alessandro Bernard, Francesca Portalupi, Serena Gramizzi e Luca Ferrario, Laura Zumiani, Eddie Fracchia, Luigi Pepe e Katia Bernardi, Sara Benedetti, Benedetta Marchiori, Juliane Biasi, Guido Casali, Antonio Pezzuto, Enrico Bisi, Stefano Cravero, Vittoria Fiumi e Gianluca De Angelis che in modi diversi mi hanno fatto capire che avrei potuto e dovuto prendermi la responsabilità delle storie che incontravo. Continuo ad imparare io direi che non ho ancora finito.

Parlaci del tuo esordio alla regia, emozioni e ricordi dal set.

Potrei dirvi che il mio esordio vero e proprio non c’è ancora stato.
L’antropologia mi ha portato in Rwanda a filmare quello che avrebbe dovuto essere il mio primo film, avevo trovato un gruppo di artisti che contrabbandavano il colore per poter dipingere le proprie emozioni. Due anni dopo sono tornata in Rwanda con Stefania Bona, avremmo dovuto girare il teaser e alcune scene per rendere vivido tutto quello che avevo scritto e filmato due anni prima. Era uno dei giorni più felici della mia vita, eravamo state a Istanbul per lo scalo e sembrava una giornata meravigliosa, con le rondini in cielo, la moschea blu e la luce dorata.
Dodici ore dopo c’è stato l’incubo: era notte, le stelle del cielo africano erano brillantissime, noi eravamo stanchissime, al momento di verificare i passaporti e i visti Stefania è riuscita a passare verso le valigie, io sono stata presa e messa in una stanza buia per un tempo indefinito. I nostri cellulari non prendevano. Quando Stefania è venuta a cercarmi le dicevano che io non ero mai atterrata, non so come ma è riuscita a tirarmi fuori da quella stanza.
Nel mentre siamo riuscite a chiamare la Farnesina e un’avvocata, e a contattare i produttori che ci hanno mandato un console in volo per trattare la nostra posizione. Siamo rimaste 24 ore nell’area transiti con pochissimo cibo e forse due bottigliette d’acqua. Al console in volo non è stato permesso di atterrare e noi siamo state messe su un aereo sorvegliate e mandate a Istanbul e poi a casa a Torino. Ricordo di aver pianto e vomitato per l’agitazione in volo. Quella volta è stato il momento in cui ho avuto più paura di tutta la mia vita. Nonostante tutto, quel film, “I colori di Kigali” a detta di tutti avrebbe dovuto essere un film geniale. Forse ci sarà un altro modo per raccontarlo.
Due anni dopo ho vinto il Solinas con “Il Vangelo di Alice” (o “A Cross”), non so ancora come ma l’ho vinto con le mie guance rosse e la mia sincerità. Partendo dalla sindone alla ricerca di Gesù mi sono trovata: a nuotare alle terme a Saint Moritz, ad assistere a un rituale dove sgozzavano i polli in Messico e ci bevevano la coca-cola dietro e ad attraversare l’ambiente post-human del Vietnam. Non ho ancora capito se è un set o se è una esperienza performativa, e quante strade dovrò ancora percorrere per arrivare al “red carpet”.
Quello che è vero è che sto finendo di scrivere questo “romanzo di formazione” alla mia maniera scout-punk che per alcuni si è rivelata troppo selvaggia. Nel mentre credo e spero di aver fatto ridere un po’ di persone che ho incontrato sul mio cammino e speriamo che il film regga tutte queste aspettative.

Come scegli i temi di cui occuparti (quando sei tu scegliere)?

Certi film non si scelgono è la vita che li sceglie. L’altro film “War of imagination”, che sto facendo con Simone Rosset, è l’esempio. Nel 2018 dopo un mese di viaggio in Messico ho capito che quello che stavo vivendo doveva trasformarsi in un film, così ho iniziato ad usare la mostra Here in Cavallerizza come se fosse un set dove far muovere e integrare i miei personaggi. La città temporanea. Gli artisti mi hanno stupito ed hanno organizzato opere perfette per il “set”.
Le riprese di giorno in giorno, di anno in anno erano la cartina al tornasole delle interazioni di ogni singolo abitante o “nuotatore” della Cavallerizza. Filmando gradualmente sono emersi coloro che poi avrebbero potuto guidare la storia, ogni stagione aveva un personaggio che coincideva con una serie di eventi.
La mia parte di antropologa è continuamente affascinata dall’analizzare tutte le dinamiche sociali e sono continuamente a caccia o in ricerca.
Sicuramente è necessario, per lavorare bene, uscire dalla propria zona di comfort per capire se esiste un altro modo di vivere fuori dal consumismo. “A lungo abbiamo fondato città, ora dobbiamo fondare foreste…“: spesso pecco di ermetismo nella vita così cerco di tradurre le immagini in parole e viceversa. Se non fotografo scrivo e se non scrivo filmo e se non filmo né scrivo né fotografo allora ho la febbre. Mettersi continuamente alla prova e ricordarsi che alla fine il cinema è un lavoro di artigianato e di squadra. Magari un giorno farò un film di finzione, allora quando sarò più grande dovrò scegliere in maniera più precisa e pensare di più non partendo dal cuore. Ma del resto quali sono i valori semiotici dell’immaginario?

In queste settimane complicate sei riuscita a lavorare su nuovi progetti? Di cosa ti stai occupando in questo periodo?

In questi mesi mi sono fermata in un luogo più di due settimane, che è un evento raro, ho frugato in tutti i miei hard disk ed ho iniziato ad assemblare delle cartoline dal Vietnam e dalla Cambogia impastando dei pezzi di “A Cross” per vedere cosa può uscirne. Con Simone abbiamo scritto il dossier nuovo di “War of imagination” e abbiamo ragionato con i produttori – tutto attraverso Zoom e simili – sul come portare avanti il progetto contattando e vedendo persone virtualmente. Sono stata a Visions du Reel in Svizzera, ho incontrato Pietro Marcello in Puglia, dei miei amici a Milano. E ora sono a Bologna al Biografilm, tutto senza uscire quasi mai dai boschi e da casa. Ho ripreso a fare il programma su Radio Banda Larga, Displacement, e a divertimi con degli ospiti più o meno illustri: siamo stati in Brasile con Max Viale e in Perù con Giovanni Cioni.
Mi sono messa a scrivere un soggetto di finzione, ho preparato degli esami all’università, ho scritto un progetto di dottorato. Ho iniziato ad assemblare con Giorgia Amodio un corto che avevo da tanti anni negli hard disk.
Ma adesso mi mancano le birrette con gli amici, il giro del quartiere, il gelato e la possibilità di parlare e toccare qualcuno da vicino respirando senza mascherina (quando a ottobre ero in Vietnam mi sono allenata anche a questo).
Spero a breve di poter ripartire e di tornare nelle mie case con le persone che amo.