Registe (a Torino): Alessandra Lancellotti

uova puntata di Registe (a Torino): ospite Alessandra Lancellotti.

Quando hai deciso di avvicinarti al mondo del cinema? Come hai imparato il mestiere?

La mia identità è stata fortemente segnata da due grandi assenze, il cinema e il treno. Sono nata in un piccolo borgo della Basilicata in cui non c’erano – e non ci sono ancora – mentre sono i cardini della mia vita adulta.
Quando avevo 20 anni sono venuta a Torino per studiare architettura al Politecnico e ho iniziato a fare ricerche su un cinema della mia zona chiuso negli anni ’80, il cinema Martino, sala da cui nasce quella che sarebbe poi diventata la Cineteca Lucana, grazie alla nuova generazione guidata da Gaetano Martino, che ha conservato tutto il patrimonio di proiettori, pellicole e locandine e con spirito da vero collezionista ha dato vita a quel progetto.
Per me il cinema è un elemento centrale della vita, fondamentale per conoscere quel tessuto culturale vivace a cui sentivo di appartenere ma che era già scomparso anni prima che io nascessi.
Ho iniziato così a collaborare per diversi archivi, luoghi di riscatto per me che avevo tanto desiderato il cinema nella mia vita, oltre che importanti momenti di formazione e occasione per venire in contatto con patrimoni filmici nascosti. Ora lavoro anche per Architeca DAD-Archivio Cinematografico e Multimediale di Architettura.

Parlaci del tuo esordio alla regia, emozioni e ricordi dal set…

Ho lavorato per anni con la casa di produzione Caucaso per lavori di ricerca e come assistente, e nel 2019 ho girato “Lucus a Lucendo – A proposito di Carlo Levi“, il mio primo documentario, diretto insieme a Enrico Masi, regista e co-fondatore di Caucaso. Tutto il mio amore per gli archivi l’ho portato nella regia di questo film!
Sono più di 6 anni che lavoriamo fianco a fianco io ed Enrico, e che condividiamo molti progetti di ricerca. Sono cresciuta insieme a lui e i nostri gusti si sono affinati con il contributo reciproco: questa è una delle virtù del nostro doc, l’unione di due visioni complementari.
Ci metterò anni magari a fare un altro documentario, del resto ce ne ho messi 29 per fare il primo… È stata un’esperienza molto formativa, mi sono sentita compiuta nella mia identità. Ci siamo aiutati molto prima e poi sul set, dividendoci il lavoro: io sono anche “in campo”, volevamo che il film parlasse alla contemporaneità e la mia presenza sullo schermo vuole costituire un ponte tra “l’uomo del Novecento” e il nuovo Millennio.
Dopo l’anteprima al Torino Film Festival a novembre, qualche proiezione in Basilicata per Matera Capitale della Cultura e una serata romana alla Casa del Cinema a gennaio, tra marzo e aprile dovevamo partire in tour per presentarlo in tutta Italia. Ovviamente è saltato tutto causa-Covid, ora speriamo entro fine anno di poter fare quel viaggio.

In queste settimane complicate sei riuscita a lavorare su nuovi progetti? Di cosa ti stai occupando in questo periodo?

Prima di questo film ho realizzato una trilogia di documentari sui temi dell’abbandono e delle rovine, che ho girato ma mai montato. Alla fine di “Lucus a Lucendo” ho ripreso in mano quei materiali, sono tre lavori che dipendono l’uno dall’altro e che sono stati scritti da me senza alcuna formazione cinematografica, dal punto di vista di uno storico dell’architettura e del restauro. L’obiettivo ora è chiuderli quanto prima.
Sono stati mesi utili per i creativi, quelli del lockdown, soprattutto per chi aveva necessità di fare ricerca e scrittura: servono solitudine e forte introspezione, è stata l’occasione per aprire fasi meno dinamiche, ma necessarie.
Nel mio futuro vorrei contribuire a definire il genere del “cinema d’architettura”, sto lavorando anche – in primissima fase – a un film d’architettura sulla cultura postmoderna in Italia (che girerò di nuovo con Enrico Masi).