Frederic Farrucci: “Il Mohicano e la mia Corsica”

Uno dei film rivelazione dell’ultima selezione ufficiale di Orizzonti Extra della 81esima Mostra del Cinema di Venezia è stato “Il Mohicano” di Frédéric Farrucci con Alexis Manenti, che ora è al cinema anche a Torino ai Fratelli Marx di corso Belgio. Abbiamo intervistato il regista.

Alexis, come è nata la figura del Mohicano, ribelle contro la sua volontà? 

«Dall’incontro con un pastore corso, Joseph Terrazzoni, su cui ho fatto un documentario nel 2017. Lui vive nel litorale sud della Corsica e aveva il suo terreno sempre più circondato da golf club e villaggi turistici, lo chiamavano l’ultimo dei Mohicani perché resisteva da solo e lui si faceva scrupoli a continuare così. La pastorizia sta finendo, almeno in quel modo: tutte le unicità della Corsica vengono appiattite per farla diventare uguale al resto del mondo. E’ sempre stato un tema che mi turbava».

Il tono del film, tra western e poliziesco, è sempre stato quello?

«Sì, ho sempre pensato di usare il genere come una specie di “cavallo di Troia”, da spettatore quando vedo film che affrontano in modo diretti temi politici spesso ne rimango un po’ distante. Sono molto appassionato al cinema di genere, sia italiano sia statunitense: l’idea del western mi è venuta in fase di scrittura per ragioni estetiche (la Corsica si presta bene, e ancora più di quella zona specifica) sia per ragioni tematiche (conflitti di territorio e di civilizzazione). E poi i miti, le leggende… anche la Corsica ne è piena, spesso con al centro banditi. E poi avevo voglia di fare un “survival film”, lo ammetto».

Cosa pensa dell’immagine della Corsica al cinema? E’ realistica? Perché se ne parla poco?

«Senza generalizzare, l’immagine della Corsica dipende tantissimo dalla provenienza degli autori, se a raccontarla è chi non ha origini corse spesso si cade nei cliché, in una visione un po’ banalizzata e romantica. Quando siamo noi corsi le cose cambiano, la visione è più sfumata e complessa, senza gli stereotipi che si sono accumulati nel tempo: ma siamo pochi».

E’ indubbio il carattere politico del film: è una caratteristica fondamentale del cinema che vuole fare?

«Sì, quello che mi spinge a fare cinema sono essenzialmente temi politici, delle domande che mi pongo rispetto alla contemporaneità e a cosa che da cittadino mi fanno soffrire, che mi mettono in difficoltà. Il primo era sull’immigrazione clandestina a Parigi: ora vedo difficile immaginarmi a dirigere una commedia romantica! Quello che mi spinge al momento sono i problemi, i dolori e le domande della nostra epoca».

Non solo trama e politica, il film ha anche importanti scelte per quanto riguarda l’uso della luce, le inquadrature, la musica… come lo ha costruito? 

«La cosa più importante per me era raccontare questo personaggio di poche parole e tanta interiorità. Noi lo conosciamo e lo capiamo attraverso i suoi gesti e per come si muove nel territorio. Era importante quindi che Alexis conoscesse il pastore, familiarizzasse con lui, con le capre, con il territorio: doveva emergere il suo radicamento, la sua legittimità in quel luogo. Le scene d’azione però non mi interessano in quanto tali, devono essere portatrici di senso, e non volevo doverci lavorare in post produzione, volevo ci fosse il suo corpo, la sua sofferenza, il suo respiro (siamo stati molto in prossimità di Alexis, per questo siamo sempre più vicini a lui con la camera). Un’altra cosa fondamentale era il modo in cui rappresentare tutto ciò, a partire dal blu che è un colore costante, della sua maglietta, ma anche del mare e del cielo, del suo “paradiso perduto”. Volevo che fosse un percorso sinuoso verso l’arcaicità del territorio, che fosse sempre più minerale e anche una cartografia interiore del personaggio, verso la selvaticità. C’era anche il tema della violenza, non volevo insisterci in modo morboso, credo nell’importanza del fuori campo. Infine il formato, il Cinemascope 2,35:1, era perfetto per raccontare la linea dell’orizzonte che cambia, è come se il suo futuro pian piano svanisse».

Qualche parola su Alexis Manenti, uno degli attori più bravi di questi anni.

«Sono d’accordo sulla sua bravura! Sono stato molto fortunato, è arrivato dopo aver letto la sceneggiatura e aveva già capito – intuizione molto corretta e intelligente su cui poi l’ho spinto sempre di più – che il personaggio aveva un misto di arcaismo e di modernità, voleva ci fosse questa tensione dentro di lui. Era importante acquisisse subito i gesti dati dal lavoro del pastore, e lui che è molto intuitivo man mano che il film va avanti si chiude sempre più, come se dovesse parare dei colpi: intuizione sua, che trovo perfetta. Se devo trovargli un difetto, non è un grande sportivo: nelle scene di corsa non era mai entusiasta! Ma non volevo fosse un atleta, quindi è andata bene così. Altra cosa fantastica di Alexis: mai una ripresa è stata uguale all’altra, avevo una grandissima scelta in montaggio».

Progetti futuri?

«Di una cosa non posso ancora parlare, per questioni contrattuali, ma è l’adattamento di un romanzo: sarà la prima volta per me di un progetto non interamente nato da me. C’è anche un progetto nato ai tempi del Mohicano che voglio riprendere, sulla gioventù anarchica, persone di cui ho grande stima: come si reagisce alla violenza istituzionale sistemica… Lo trovo un tema molto interessante».