Registe (a Torino): Ilaria Ciavattini ed Elsi Perino

Nuova puntata di Registe (a Torino): ospiti Ilaria Ciavattini ed Elsi Perino. Un film in carriera (per ora), condiviso. Come questa intervista.

Quando avete deciso di avvicinarvi al mondo del cinema?

Ilaria Ciavattini: L’amore per il cinema nasce già dall’infanzia e i primi cortometraggi scritti e girati risalgono agli anni dell’adolescenza, quindi è stato naturale, dopo la maturità, scegliere di frequentare il master biennale in scrittura e storytelling della Scuola Holden qui a Torino. È stato un salto nel buio decidere di iniziare un percorso del genere appena maggiorenne, ma mi ha permesso di capire quanto potessi imparare dall’esperienza di chi il cinema lo faceva in prima persona, sceneggiatori e registi, ma anche dalla collaborazione con i miei compagni; è qui che ci siamo conosciute con Elsi e abbiamo iniziato a fare i primi esperimenti di scrittura.

Elsi Perino: Sono prima di tutto uno spettatore, parola ed immagini hanno contribuito alla mia educazione sentimentale come fossero una persona. Ho sempre scritto, più per memoria, familiare ed emotiva, che per invenzione. Il cinema come mestiere è qualcosa che inizialmente mi è capitato invece; la consapevolezza che fosse il linguaggio che tra tutti preferivo è arrivata con il tempo. Appena uscita dalla Holden Ciavattini mi chiese di partecipare alla lavorazione di un cortometraggio in veste di segretaria di edizione e da lì in avanti mi appassionai a questo ruolo.

Come avete imparato il mestiere di regista (le nozioni tecniche, ma non solo)?

Ilaria Ciavattini: Ho imparato molto sperimentando, studiando e lasciandomi influenzare dai film e dai registi che amo. Il primo impianto più strutturato a cui ho lavorato è stato girare una parte del film a episodi “La ballata dei precari”, proiettato al Teatro Valle Occupato nel 2012, pensato e coraggiosamente finalizzato da un’altra mia collega Holden, Silvia Lombardo. Per me è significato curare la regia con una troupe complessa e dirigere degli attori professionisti, un’esperienza da cui ho imparato moltissimo. Sono seguite altre produzioni più piccole, fino alla decisione di passare a raccontare una storia attraverso il linguaggio del documentario.

Elsi Perino: Oltre alla formazione scolastica e di perfezionamento per me è stato fondamentale partecipare alla lavorazione di progetti di altri e fare esperienza di set. Ho lavorato come segretaria di edizione su film e fiction e pubblicità, un’esperienza che considero imprescindibile per avere una visione il più possibile di insieme senza perdere il controllo dei vari livelli.

Parlateci del vostro esordio alla regia, emozioni e ricordi dal set di “Un uomo deve essere forte“. 

Ilaria Ciavattini: “Un uomo deve essere forte” è per me l’esordio nel documentario, un approccio narrativo e stilistico del tutto nuovo, che ha generato un piccolo terremoto rispetto a quanto avevo già imparato nei set. Dal momento che abbiamo scelto di seguire il nostro protagonista nella sua routine quotidiana, è stato necessario lasciare largo spazio a lui e alle persone che gli gravitavano intorno: la storia si stava facendo sotto i nostri occhi e dovevamo cogliere il momento giusto per accendere la camera. A volte è stato necessario rimanere in ascolto, a costo di “perdere” un ottimo spunto narrativo, perché fosse tutelato il patto di fiducia tra noi e il nostro protagonista. Per questo motivo è stato un lungo lavoro per gran parte emotivo, perché ci siamo avvicinate a Jack con profondo rispetto, a piccoli passi: ci ha dato in mano il suo percorso e abbiamo scelto con grande cura quanto lasciare che fosse restituito al pubblico. L’emozione più forte Jack ce l’ha fatta provare mentre giravamo la primissima intervista, è stato il momento in cui ci siamo dette “è lui”; ma l’emozione più piena e consapevole è quella che abbiamo provato girando l’ultima scena: abbiamo pazientato quattro anni, ma la fiducia che ha riposto in noi Jack ci ha ricompensate totalmente.

Elsi Perino: La fiducia è stato il primo elemento su cui abbiamo costruito la relazione con Jack, era necessario creare tra noi tre uno spazio accogliente di dialogo e confronto costante perché sapevamo che la lavorazione sarebbe durata molto tempo. Il senso di responsabilità è arrivato subito dopo, quando settimana dopo settimana abbiamo cominciato ad accorgerci che Jack non poneva paletti nei nostri confronti e si lasciava indagare senza fare resistenza. In un lavoro del genere umano e professionale devono viaggiare di pari passo per poter raggiungere una sintonia completa con il personaggio. E’ un privilegio poter far parte di un tassello di vita così denso di significati ; viverlo prima di raccontarlo.

Come avete scelto il tema?

Elsi Perino: Il tema della transizione è venuto fuori da un lavoro di scrittura che ci è stato commissionato nel 2014; nella fase di ricerca abbiamo fatto davvero fatica a trovare materiale di approfondimento che non fosse principalmente medico e antropologico. Avevamo bisogno di conoscere storie reali, possibilmente in divenire, per iniziare ad avere un quadro esatto degli stadi ed un lessico il più possibile corretto; strumenti per poter raccontare una storia complessa. È in questo contesto di studio costante che è nata l’idea di documentare interamente la transizione di Jack perché nulla restituisce la complessità come l’esperienza nella sua interezza.

Ilaria Ciavattini: Stavamo ragionando su nuove storie da sviluppare e abbiamo iniziato a interrogarci sul modo in cui ciascuno riesca o meno ad indagare se stesso; abbiamo riflettuto sul concetto di identità e abbiamo capito che alcune persone sono costrette più di altre a compiere un percorso di indagine personale. Così ci siamo avvicinate ad alcuni vlog di ragazzi che stavano affrontando la transizione female to male e abbiamo scoperto un mondo del tutto ignoto e poco raccontato; abbiamo allora contattato Jack, che si trovava al momento della prima puntura di testosterone, e lo abbiamo intervistato, capendo immediatamente quanto fosse complesso e sfaccettato l’interiore di chi soffre di disforia di genere. È stata l’occasione di raccontare una storia personale che si mette a dialogo con la storia di ognuno.

In queste settimane complicate siete riuscite a lavorare su nuovi progetti? Di cosa vi state occupando in questo periodo?

Ilaria Ciavattini: Al momento stiamo continuando a portare il documentario nei festival, nell’attesa che sia possibile proiettare nei cinema, che hanno subìto un durissimo arresto a causa dell’emergenza sanitaria. Ci piacerebbe continuare ad indagare dei temi sorti durante le riprese del film spostando l’attenzione dall’io al rapporto tra l’io e l’altro, per passare all’eredità che ciascuno di noi lascia. Siamo impegnate con la scrittura di altre due storie che vorremmo raccontare e che sentiamo come il naturale continuum del nostro esordio.

Elsi Perino: Possiamo dire che “Un uomo deve essere forte” in qualche modo tentasse di rispondere alla domanda – chi sono-; il percorso di Jack è stato prima di tutto un movimento per far aderire il modo in cui ci si pensa e il mondo in cui si viene percepiti. Nel caso di una persona transessuale la risposta costruisce una consapevolezza e la difesa dell’io in un modo che pochissime altre esperienze umane custodiscono e che, senza retorica, può essere da monito per tutti e tutte. Ora ci piacerebbe ragionare sul rapporto con l’altro, in declinazione diverse, come diretta conseguenza della conoscenza di sé. In questo momento stiamo restringendo i campi narrativi, approfondendo tematiche e raccogliendo interviste preparatorie per la scrittura. Parallelamente abbiamo in sviluppo un documentario breve che tratta di una safe zone urbana e sociale.