Registe (a Torino): Claudia Tosi

Nuova puntata di Registe (a Torino): ospite Claudia Tosi.

Dalla tua biografia non si nota un legame con Torino: sei nata a Modena…

… ma senza Torino non sarei mai diventata regista! Di audiovisivo, diciamo così, mi occupo da tanti anni, ma prima era soprattutto per la televisione (speciali, pubblicità…: quello che passava il convento qui in Emilia Romagna!). Torino mi piaceva da turista, poi nel 2003 un’amica torinese mi ha suggerito di andare a Bardonecchia, a Documentary in Europe. Sapeva che ero insoddisfatta.
Non avevo mai preso in considerazione il documentario fino a quel momento! Quando vidi sul palco un produttore, Edoardo Fracchia, in un panel in cui doveva esprimere le sue opinioni su vari progetti che venivano proposti, ho scoperto una persona magnifica, o ero d’accordo con ciò che diceva o sapeva farmi riflettere, è capace di una gentilezza e di una spontaneità che avevo visto di rado… Frequentavo mondo di squali!
Lo volli incontrare nei corridoi di Bardonecchia, gli dissi che avrei voluto far qualcosa con lui. “Fammi vedere qualcosa di tuo”, mi rispose: ma io non avevo fatto ancora nulla. In quei giorni avevo visto cose meravigliose che non sapevo neanche esistessero, avevo capito che il documentario è perfetto per mostrare il mondo interiore dell’autore e anche di chi ne è protagonista, una scoperta fantastica!
Mi è venuta l’idea per un film che avrei voluto fare, su Mostar, la mia migliore amica è di lì. In quel periodo non voleva tornare nel suo Paese e ne avevamo discusso a lungo: speravo che si riconciliasse col passato. Non avevo nulla in mano, ma avevo capito che un film semplice lo potevo fare anche io. Avevo fatto tanta gavetta, da montatrice-assistente-cameraman, sapevo fare un po’ di tutto sul set. Mi sono presa sei mesi dal lavoro e ho prodotto il mio film: avevo un mio “biglietto da visita”! Un piccolo film di famiglia, che ho mandato a Edoardo: lui mi ha mandato una lettera, che ancora oggi ogni tanto mi vado a guardare. Mi disse di mandarlo in giro, ma io non sapevo neanche da che parte iniziare, quali festival… non sapevo nulla, era il 2003.
Scopiazzando qua e là ho trovato qualche nome di festival e ho scritto, e sono stata subito selezionata all’IDFA, che per me era uno come tanti ma che Edoardo mi spiegò essere uno dei più importanti al mondo nel campo. Da lì è iniziata una vita meravigliosa, fatta di stenti economici, vero, ma non la cambierei, ho trovato il mio posto nel mondo!
E non è un caso che sia successo a Torino, lì c’è l’armonia che serve a me per lavorare. La frequento sempre di più. Ho continuato a lavorare con Edoardo, poi ho conosciuto Marco Duretti (che è diventato il mio montatore feticcio): per me Torino è casa.

Quando hai deciso di avvicinarti al mondo dell’audiovisivo?

Da ragazza lessi “Niente e così sia” della Fallaci e volevo diventare fotoreporter di guerra. Non si discuteva! Mi piaceva anche scrivere… Poi ho studiato filosofia a Bologna, ma ho fatto qualche esame del Dams ed è scoppiato il mio amore per il cinema. Si sposava molto bene con il mio amore per la filosofia, tra l’altro.
Fotografavo e stampavo in camera oscura, nel frattempo, e pensavo che avrei lavorato nel cinema ma non sapevo bene come. Di certo non volevo lavorare con gli attori: non ho niente contro di loro, ma sono cariche esplosive e dirigerli non è nelle mie corde, non avevo la forza. E così sentivo che la mia “carriera” era già finita. Facevo corsi per imparare a usare la videocamera, mi davo molto da fare, ho fatto alcuni corti con gli amici, un po’ sperimentali e un po’ ingenui. Poi ho cominciato a lavorare in piccola casa di produzione, ma su cose commerciali… Fino ai giorni di Bardonecchia, quando ho scoperto la comunità dei documentaristi e ho capito che volevo appartenere a quel mondo lì!

Come scegli i temi di cui occuparti?

Io sono molto lenta, le cose di cui mi occupo sono quelle che mi restano in testa molto a lungo: avrò 10 idee al giorno, ma poche sopravvivono all’urto della noia, della piattezza e riescono a diventare più elaborate. Sono, alla fine, le storie che rientrano nella mia “apertura alare”: il primo documentario l’ho girato su un’amica e il nostro scambio di lettere sul suo disagio, “Mostar United” era una risposta alla sua risposta, “Perfect Circle” era ispirato dalla vicenda personale delle cure a mia madre (che ha avuto una lunga malattia e poi è morta), ho messo a fuoco un percorso emotivo che volevo raccontare (costruire le emozioni è cosa che mi affascina di più…). È un film che nasce dalla voglia di condividere un’emozione e di vedere se ero in grado di costruire un’emozione e non di raccontarla, ma fartela provare mentre sei seduto in sala e guardi il mio film.
“I had a dream” è stato molto fortunato, ha vinto a Lipsia nel 2018 ed è stato anche candidato agli Oscar. Nasceva dalla mia passione politica, volevo raccontare la storia di due donne del mio comune impegnate in politica e con il sogno di far diventare l’Italia un paese più woman friendly. Doveva essere un instant-doc, è durato invece 10 anni e si è trasformato in un lavoro sullo scoppio populismo in Italia: sono stata fortunata perché era pronto al momento giusto, la situazione internazionale era perfetta. Aveva di nuovo a vedere con me, che leggevo “Il Manifesto” tutti i giorni e mi incazzavo e volevo far qualcosa per le donne: amo le attiviste, ma volevo raccontare le donne moderate. Cosa vuol dire essere una donna appassionata di politica e sedere in uno scranno importante? Raccontare il passaggio dall’entusiamo alla delusione, come si compie questo arco narrativo… anche in questo caso, ho voluto costruire questa emozione.

In queste settimane complicate sei riuscita a lavorare su nuovi progetti? Di cosa ti stai occupando in questo periodo?

Ammetto che parlo dalla cima di un privilegio, sono stata bene e nessuno intorno a me si è ammalato. Sono impegnata in due progetti, ero già “condannata” a una vita casalinga di scrittura e non ho fatto altro che continuare il mio lavoro, scrivere i miei progetti. La mia sofferenza era non poter portate il cane in campagna, figurati… mi spiaceva per lui! Il Covid-19 è stata un’occasione molto interessante di riflessione, a livello filosofico, e sto immaginando di lavorarci su con alcuni produttori. Non parlando di cronaca, ma delle emozioni su ciò che è accaduto.
E poi sto facendo, con Elena Filippini di Stefilm, un film sul mio cane! Attraverso lui voglio raccontare una specie di cambio di paradigma etico, io auspico che l’essere umano smetta di dominare il mondo e cominci a guardare ad esso come un soggetto da ascoltare. Un essere umano seduto accanto alle altre creature e non più in cima alla piramide: la nostra vita cambierebbe in meglio! Tutto viene raccontato attraverso il desiderio di imparare il linguaggio del cane, in questi mesi l’ho ripreso molto.
E poi mi sono iscritta anche all’università, ovviamente a Torino, per fare una specialistica in filosofia!